lunedì 20 luglio 2009

Nel FUOCO della passione musicale, due personaggi PREZIOSI


..Dire bene è come far morire quello che si è fatto..

Due sono le identità che hanno saputo mimetizzarsi dentro i meccanismi spettacolari dell’Aida e che adesso si sono rivelate: forse perché finalmente posso allentare le corde; forse perché con Opera Festival, collaborando ormai da anni, sono diventati un tutt’uno con le personalità che gestiscono i retroscena e l’organizzazione. Ma certo è che le rivelazioni sono state importanti e non trascurabili.

A suonare il violino ha iniziato ad 8 anni e da lì non ha mai smesso. “Non so perchè ho scelto il violino, mi hanno detto che l’ho scelto io, indeciso tra violino e tromba” dice sorridendo Lorenzo Fuoco, primo violino di OperaFestival.

Per diventare quello che è oggi, quali sono stati i passaggi?

“I passaggi sono stati 2 anni di studio privato, poi il conservatorio (10 anni) e infine perfezionamento all’estero. I passaggi in questo senso sono obbligati perché nonostante i 10 anni al conservatorio, questo è un lavoro dove non finisci mai di imparare e di studiare. Non esiste un punto in cui puoi dire dopo aver allestito un’opera, di poter essere soddisfatto e di aver finito. Ogni concerto precede un periodo di studio”.

Nel percorso avuto c’è stato qualcosa che lo ha portato a cambiare il suo modo di suonare?

“La curiosità gioca a favore. La curiosità di sentire anche la stessa cosa fatta da due esecutori diversi, semplifica lo studio, così come la fortuna di incontrarsi con delle personalità determinanti. Questo perché secondo me nel campo musicale c’è una sorta di imitazione morbosa, un rapporto con l’insegnate, con cui, se hai la fortuna di incontrarne uno in gamba, è molto utile”. Così risponde ricordando la figura del suo maestro sia nel periodo al conservatorio che quello che lo ha spinto all’opportunità di perfezionarsi all’estero”.

Perché in Svizzera piuttosto che in altri Paesi Europei?

“In primis perché in Italia da questo punto di vista è arretrato, quindi a prescindere un altro paese come la Svizzera o anche in Germania si puoi ottenere qualcosa di più. Questo non dipende tanto da quello che possono offrire ,ma proprio dalla predisposizione che hanno come percorso d’insegnamento: la musica entra nelle case da subito, insegnano ai bambini da subito ad ascoltare e a suonare uno strumento e ad indicarli da subito i loro potenziali, cosa che non succede in Italia”.

In che senso?

“Purtroppo in Italia non c’è l’intelligenza di avere prospettiva. Si iscrivono al conservatorio per passione iniziale ma senza porsi obbiettivi futuri. Aiuti importanti come quello di introdurre collegamenti diretti tra istituti e enti professionali, rappresenta una realtà che oggi, fortunatamente per molti artisti e musicisti emergenti, sopperisce a questa situazione.

Può spiegarsi meglio?

“Sì. Io OperaFestival l’ho vista nascere e crescere soprattutto. Il nostro cast è costituito da molti giovani alle prime esperienze, che noi chiamiamo appositamente per dar loro la possibilità di arricchirsi. Infatti, quando ho sposato il progetto 5 anni fa, era proprio per questo motivo, rendendomi conto in prospettiva cosa potesse diventare per firenze: una grande risorsa che nel corso di questi anni si è rivelata veramente utile”.

Quali sono state le difficoltà nell’interpretare l’Aida?

“Più che una difficoltà tecnica da sottolineare è da evidenziare la grandezza, non intesa dal punto di vista musicale, ma proprio dalla quantità di persone che impiega. Qui con OperaFestival è stato ridotto proprio dai limiti spaziali a disposizione. E già stata una grande impresa ottenere una acustica adeguata alla grande spazialità che si apre sopra la testa degli spettatori disperdendo il suono”.

La forza dello spettacolo non sta solo negli strumenti, anzi, la bellezza di Aida è priprio la sua caratteristica di essere un’opera corale. “Il coro nell’Aida costituisce quasi un personaggio e quindi ha un forte peso, e uno forte spazio, un elemento di primo piano che in altre opere non ha” così sottolinea le caratteristiche di Aida e le difficoltà che Maurizio Preziosi, Maestro del coro di OperaFestiva, sottolinea per il suo corpo di voci.

Preziosi sorride e amette”Non sono un bambino prodigio, la passione per la musica è arrivata molto tardi. A 13 anni per il pianoforte è tardi perché oltre alla lunga preparazione che occorre è utile avere una predisposizione fisica perché poi passati i 15 anni la mano si forma, le ossature si formano in un determinato modo e iniziare tardi diventa quindi non impossibile ma sicuramente difficile”.

Qual è stato dunque il suo percorso professionale?

“Nasco come concertista di pianoforte. L’ho fatto per 10 anni e contemporaneamente ho iniziato a lavorare come maestro di coro, perché mi è sempre piaciuto lavorare con la voce”.

Da quant’è che lavora per opera festival ? Ha lavorato sempre col solito coro?

“Dalla prima partenza di 5 anni fa, il coro nel tempo è cambiato: qualcuno è andato qualcuno è arrivato tutto con l’obbiettivo di ottenere una qualità migliore di voci, attraverso selezioni ed audizioni, di voci anche semiprofessionali”.

E quest’anno come si è trovato col coro? Hanno avuto difficoltà a seguire le sue indicazioni?

“L’organico totale del coro di OperaFestival comprende 95 coristi circa, di cui 85 solo per l’Aida. Con loro ho creato un buon rapporto e no, sono stati molto attenti e volenterosi.

Per entrambi la domanda finale è stata la medesima, come medesima è stata la risposta. Con diverse esibizioni alle spalle, entrambi sono stati compiaciuti del lavoro svolto, ma non soddisfatti. Quello mai.

Nella musica, come nell’arte, il cast di OperaFestival sembra esser d’accordo nel definire l’arte come un mondo che non vede soddisfazione. “Essere soddisfatti è un lusso che non ci possiamo permettere” disse Cigni a suo tempo; in altri termini lo ha detto Fuoco e così aggiunge al tutto anche Preziosi: “ A volte, i coristi si lamentano. Mi definiscono tirchio di complimenti, nel senso che non dico mai bene, buono, bravo. Ma per me dire bene, buono, bravo equivale a dire –ok, hai finito!-“ e invece così non è, non c’è una fine, non c’è un termine nel percorso artistico e musicale; sia che tu sia uno scultore, sia che tu sia un regista, che tu sia un musicista, od un cantante. “Dire bene è come far morire quello che si è fatto”.

Malia Zheng

Foto di Sara Giosa

Pubblicato su intoscana.it

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